“Il fallimento dell’economia keynesiana”: un libro ancora attuale

Sono pochi i libri che, dopo essere stati scritti, rimangono sempre attuali nel loro contenuto; libri che sono destinati – nel senso della validità delle affermazioni di cui si fanno portatori – ad essere eterni e che riescono allo stesso tempo ad essere comprensibili ad una persona con una media educazione in ambito economico e finanziario: “Il Fallimento dell’Economia Keynesiana” di Henry Hazlitt, uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1959 ed arrivato alle stampe in lingua italiana solo nel 2018 per opera di Marco Marinozzi, è sicuramente uno di quelli. La rilevanza odierna di questo saggio, sicuramente abbastanza corposo in termini di pagine (492, incluse le appendici, nell’edizione del 2018) ma di agevole lettura, è facilmente intuibile se si considera che la oramai totale maggioranza degli accademici universitari ritiene che le soluzioni ai mali economici del nostro tempo sia spendere ad libitum e dare luce verde alle stampanti monetarie di tutto il mondo; rendendo dunque palese la necessità – perlomeno per avere un minimo di pluralismo – di avere un contraltare a queste idee pericolose ed economicamente errate.

Di fornircelo se n’è occupato l’autore Henry Hazlitt, l’economista di scuola Austriaca – nonché giornalista per diversi quotidiani (tra cui The Wall Street Journal, The New York Times, e Newsweek) –che con uno stile mai pesante, talvolta colorito con punte di ironia che lo fanno stare sempre “sul pezzo”, con una puntuale e certosina opera di raccolta e citazione delle fonti bibliografiche da cui attinge e con un linguaggio semplice e mai troppo tecnico (se non dove serve), con questa opera si propone di prendere la “General Theory” di John Maynard Keynes capitolo per capitolo mostrando una per una le fallacie, le incoerenze e le mancanze delle teorie keynesiane che oggi sembrano riscuotere tanto successo. Quella che l’autore ci restituisce è una caratterizzazione dell’economia keynesiana come una teorizzazione nel migliore dei casi rozza, imprecisa ed antiquata, che attinge e storpia le teorie “classiche” che essa stessa si proponeva di confutare, mentre nel peggiore errata, economicamente pericolosa e politicamente diretta ad affermare una sempre maggiore presenza dello Stato nell’economia, con tutte le conseguenze (negative) che essa comporta, proprio come non manca di ricordarci il Nostro in quella che – ritengo – sia uno dei migliori e più illustrativi passi dell’intero libro:

“Ed ora Keynes ha qualche parola di gentilezza e accondiscendenza sul sistema economico libero e volontario. Ma attenzione a Keynes quando porta i regali! ‘Sotto qualche aspetto’ esordisce, ‘la teoria precedente è moderatamente conservatrice sulle sue implicazioni […]Ci sono ampi campi di attività che non vengono influenzati [corsivo dell’autore] (pp.377-378; “Teoria generale”; Hartcourt, Brace&Co). Certamente lo Stato dovrà aumentare la ‘propensione a consumare’ (p.es, scoraggiando i risparmi), e deve fissare (cioè a un livello più basso) il tasso di interesse; e deve esistere ‘un qualcosa come una socializzazione globale degli investimenti’ ma ‘oltre a questo non si vede un altro caso in cui non possa essere implementato un Socialismo di Stato che abbracci la maggior parte della vita economica della comunità’(p.378). È difficile da credere che Keynes sia così ingenuo come sembri, e che non stia ridendo sotto i baffi. Il tasso di interesse – la valutazione del tempo e di tutti gli investimenti – deve esser tolto dal mercato e consegnato completamente nelle mani dello Stato. Ma Keynes ignora la totale interconnessione di tutti i prezzi. In particolare, include il prezzo dei prestiti di capitale, e ogni Stato tentando di aggiustarlo deve necessariamente influenzare e distorcere tutti i prezzi e tutte le relazioni tra i prezzi in tutta l’economia. Attraverso la socializzazione degli investimenti, inoltre, lo Stato deciderebbe quali imprese o industrie espandere e quali congelare o contrarre. Nonostante lo Stato non abbia posseduto tecnicamente gli strumenti di produzione, questo condurrebbe a un socialismo de facto. [Keynes continua dicendo che, nota mia] ‘Se supponessimo che il volume di produzione venga dato, [Keynes prosegue] cioè, sia determinato da forze esterne allo schema di pensiero classico, allora […] l’interesse egoistico privato determinerà quello che viene prodotto, in particolare, in quali proporzioni, i fattori di produzione verranno usati per produrre, e come il valore del prodotto finale verrà distribuito fra di essi’(pp.378-379). Questo passo è ovviamente una contraddizione. Se lo Stato definisce quanto verrà investito, a quale tasso di interesse, e proprio dove, definisce quello che verrà prodotto e in particolare con quali fattori di produzione. Lo schema di Keynes vorrebbe tenere tutto questo fuori dalle mani private. Rifiuta di riconoscere le impostazioni delle sue stesse proposte […]. Keynes prosegue la sua attitudine paternalistica verso la libertà personale: ‘Rimarrà ancora un ampio spazio per l’esercizio dell’iniziativa privata e della responsabilità. All’interno di questo campo i vantaggi tradizionali dell’individualismo saranno ancora validi’ (p. 380) […] In altre parole, il modo per conservare l’individualismo è respingerlo, perché l’investimento è una decisione chiave nelle operazioni di ogni sistema economico. E l’investimento governativo è una forma di socialismo. Solo la confusione di pensiero o una doppiezza intenzionale lo negherebbe. Poiché il socialismo, come direbbe qualsiasi dizionario, vuol dire proprietà e controllo dei mezzi di produzione da parte del governo. Sotto il sistema proposto da Keynes, il governo controllerebbe tutti gli investimenti attraverso i mezzi di produzione e possiederebbe la parte che esso stesso ha investito. Nel migliore dei casi, è semplice confusione presentare i nostri keynesiani come [favorevoli a] una società libera o ‘individualistica’ come alternativa al socialismo”[1].

In questo passo è riassunto il pensiero politico, economico e filosofico della Scuola Austriaca; ossia che chi possiede tutti i mezzi controlla anche i fini; dando credito all’affermazione misesiana per cui “La libertà di stampa è inutile se lo Stato è padrone di tutte le cartiere”, mostrandoci ancora una volta che una società veramente libera è quella in cui lo è anche la sua economia: ricordiamocene di tutto ciò quando il politico di turno ci proporrà l’ennesima prebenda elettorale per comprare il nostro voto: gli stiamo vendendo la nostra libertà (un bene, questo, che è talmente prezioso da non avere prezzo). Con il suo linguaggio semplice, accessibile e con uno stile chiaro ed essenziale Hazlitt ci ricorda tutto ciò: non dimentichiamo questa grande lezione o, al contrario, la via della schiavitù sarà una strada dalla quale non potremmo più tornare indietro.


[1] H. Hazlitt; “Il fallimento dell’economia Keynesiana”, “Cap. XXIV – Keynes si lascia andare”; pp. 429-432

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