Armey, Laffer e la dimensione “ottima” del governo

Uno dei più grandi temi che liberali e libertari spesso si trovano ad affrontare è la questione – tutt’altro che facile, dal momento che coinvolge tutta una serie di discipline che vanno dall’economia fino alla sociologia – di quali debbano essere le dimensioni “ottimali” di uno Stato, di cosa dovrebbe o non dovrebbe fare e – in generale – di quale debba essere il suo peso nell’economia.

Per quello che mi riguarda, la mia posizione in merito la si potrebbe definire “ultraminiarchica”, mutuando questo termine dal grande pensatore statunitense Robert Nozick; posizione che mi deriva dall’essere economicamente un “ibrido” tra quella che possiamo considerare il filone di pensiero della Scuola Austriaca e quella parte di pensiero economico al quale ci si riferisce con il nome di “Scuola di Chicago”. Nella mia visione, lo Stato ha il compito di garantire la protezione da minacce estere e la gestione della giustizia. Il resto o affidato al mercato o concorrenza tra Stato e privati (come nel caso di protezione sociale, sanità e simili, dal momento che in questi casi potrebbero verificarsi delle situazioni per cui i più poveri non ce la fanno e quindi – solo per essi e temporaneamente – ci dovrebbe pensare la collettività sebbene auspico che si faccia a livello quanto più decentrato e locale possibile, in modo da essere più vicini alle esigenze di questi soggetti ed in modo da controllare l’effettiva efficacia di questi aiuti temporanei). Quindi di base la mia posizione è inquadrabile nell’ambito del laissez-faire, puntando alla concorrenza, alla flessibilità dei prezzi dei beni/servizi e del lavoro con bilancio in pareggio tramite basse aliquote, spesa pubblica bassa e concentrata in spese per investimenti, allo scopo di efficientare il sistema economico. A livello di politiche monetarie, prediligo la prudenza e un minor attivismo delle banche centrali (magari con politiche monetarie diverse e più “prudenti” delle quali, se necessario, potrò parlare più approfonditamente in un altro articolo); sebbene ritengo che le stesse debbano – a fronte di un minor attivismo dal lato delle politiche monetarie – essere molto più attente per quanto riguarda le politiche di vigilanza. Dal momento che la mia posizione è molto “moderata” (tanto in un senso quanto nell’altro), potrebbe sembrare che sto parlando di teorie astruse. Tuttavia, quello che ci dice la teoria economica in merito alle dimensioni “ottimali” del governo sembrerebbe confermare quelle che possono sembrare dei pii vaneggiamenti di una persona che ha alzato troppo il bicchiere ieri sera. Per spiegare come mai, e illustrare che – in effetti – è possibile trovare una dimensione ottima del governo, mostrerò due concetti tra loro simili che vedono il problema da i due lati della questione: la curva di Laffer e la curva di Arme; due strumenti che ci permettono di capire se – in effetti – è poi così utopistico richiedere un governo limitato ed il cui unico scopo dovrebbe essere quello di garantire il rispetto dei contatti e poco più.

Cominciamo dalla curva di Laffer, il modello più noto anche al grande pubblico. Questo modello, nato negli anni Ottanta ci mostra – in estrema sintesi – che oltrepassato un certo livello di prelievo fiscale gli incentivi connessi all’attività economica sono decrescenti e – pertanto – il gettito fiscale che deriva dall’imposizione di aliquote alte è (paradossalmente, ma neanche tanto) nullo. Qual è il discorso che fa Laffer? Il gettito fiscale è dato dall’aliquota fiscale – poniamo, il 30% – e dalla base imponibile (che nel senso più ampio possiamo intendere come il PIL). Il ragionamento di Laffer è che per aumentare il gettito fiscale si hanno due modi: uno è aumentare le aliquote (e quindi aumentare il carico fiscale), oppure aumentare la base imponibile. Il primo modo è – di tutta evidenza – dannoso, dal momento che riducendo il reddito (cioè l’utilità marginale del lavoro) l’imposta spinge alla riduzione del lavoro e quindi della produzione (traslando questo ragionamento agli imprenditori, se si perdono 10 euro quando l’investimento va male, mentre se ne guadagna una frazione a causa dell’imposta, la disponibilità ad assumersi il rischio dell’investimento crolla). In generale l’effetto è una riduzione del reddito dei risparmi e quindi degli investimenti a vantaggio del consumo presente e quindi a scapito della produzione (si ricordi che l’offerta di beni è determinata dalla disponibilità di fattori produttivi ed aumentando la tassazione si riduce l’incentivo a lavorare e risparmiare, riducendo quindi la disponibilità di fattore lavoro e capitale necessari per gli investimenti) causando di conseguenza una diminuzione dell’offerta e quindi del reddito. Da qui Laffer conclude che esistono due punti in cui il gettito fiscale è nullo, ossia quando l’aliquota fiscale è, a sua volta, nulla e quando l’aliquota fiscale è massima (ossia è al 100%); il che vuol dire che ci deve essere un punto (nel mezzo di questa curva) in cui il gettito fiscale è massimo con una data aliquota fiscale. Il tutto viene ben illustrato nella figura seguente:

Nel tratto crescente della curva (quello che va da 0 a T1) le aliquote sono basse (T1) e qualsiasi aumento delle aliquote da T1 a T* aumenta anche il gettito fiscale da G1 a G*. Nel tratto decrescente della curva (quello che va da T* a T, invece, un aumento dell’aliquota fiscale altro non fa che deprimere l’economia e quindi riduce il carico fiscale. Il concetto di “aliquota ottima” è – chiaramente – banale a dirsi: in effetti per il teorema di Weierstrass e per il teorema di Fermat, assumendo un intervallo chiuso e limitato e una funzione continua e derivabile nell’intervallo stesso, sappiamo che deve per forza esistere almeno un massimo assoluto ed un minimo assoluto appartenente all’intervallo stesso, e che tale valore di massimo/minimo assoluto deve coincidere con il punto in cui la derivata prima della funzione (ossia il coefficiente angolare – la pendenza – della retta tangente alla curva) in oggetto è uguale a zero. Dal momento che Laffer suppone che ci sia una relazione quadratica inversa tra pressione fiscale e gettito fiscale, troviamo che la derivata prima di questa funzione è una retta che diventa tangente a questa curva nell’esatto punto in cui il gettito fiscale è massimo, data una certa pressione fiscale. Il ragionamento di Laffer non fa una piega, dal momento che spiega abbastanza bene cosa accade quando un governo tassa troppo; tuttavia, a mio avviso, lascia in sospeso almeno tre questioni: quali fattori (oltre alle tasse) aumentano/diminuiscono la crescita? Cosa succede all’altro lato delle poste di bilancio, ossia alla spesa pubblica? E, domanda delle domande: dove si trova il massimo punto oltre il quale non conviene più aumentare la pressione fiscale? Il terzo punto, il più difficile, si pone la (si fa per dire) semplice questione di dove si trova il vertice della parabola: più a sinistra (e quindi il punto critico oltre il quale le aliquote fiscali cominciano a ridurre il gettito fiscale tende ad essere più piccolo) o più a destra (e quindi il punto critico tende ad essere più grande)? Nel campo della macroeconomia, pochi sono i punti di dissenso dibattuti come questo. Da un lato perché il modello di Laffer in sé e per sé non ci dice nulla su altri fattori che influenzano la crescita economica (l’efficienza della pubblica amministrazione, la produttività, la flessibilità del mercato del lavoro, la velocità della giustizia e la protezione dei diritti di proprietà; nonché il fatto di assumere delle condizioni di concorrenza perfetta e piena flessibilità di prezzi e salari, anche se quest’ultima è un’assunzione che è comune a molti modelli economici e quindi non rappresenta un elemento negativo di per sé) e dall’altro perché sono dei temi soggetti a forti pressioni di carattere “politico” (come del resto, ogni questione economica). Una questione molto interessante, soprattutto dal punto di vista del “bias” cui si potrebbe essere soggetti a causa della propria appartenenza politica, è che la questione è stata affrontata da Christina e David Romer in un loro studio del 2010. Tanto per capirci, stiamo parlando del chairman del Council of Economic Advisors durante la presidenza Obama (che sfido chiunque a definire come un presidente “di destra”) e di suo marito; esperti che hanno pubblicato il loro studio sull’American Economic Review, una importante rivista statunitense specializzata in temi macroeconomici. Nel loro studio i due coniugi Romer esaminano in che modo il PIL reagisce al cambiamento delle aliquote fiscali, trovando che il punto di massimo (e quindi l’aliquota ottimale) della curva di Laffer si aggira intorno al 33%: in altre parole, una tassazione maggiore al 33% va a ridurre il gettito fiscale anche secondo economisti che difficilmente potremmo dichiarare economicamente “di destra”.

In effetti, nelle pause tra una lezione ed un’altra, quest’inverno mi sono divertito a fare il mio modellino di “curva di Laffer” basandomi sull’analisi che un mio contatto di Facebook ha fatto con parametri che sono stati fissati da lui. Il modello, seppure buono, mancava di considerare il contesto “italiano” come punto di analisi. Per questo motivo nel “mio” modello di Laffer (dico “mio” tra virgolette, visto che ciò che utilizzo è l’elaborazione su quello che è il modello di un mio contatto) considero quelle che sono le fasce di reddito dell’IRPEF e relative aliquote per quello che concerne la tassazione delle persone fisiche ed ho ipotizzato che per quanto riguarda la tassazione delle imprese, il carico fiscale da esse sopportato sia composto solo di IRES/IRPEF (quest’ultima nel caso delle piccole imprese, che per semplicità possiamo assimilare alle ditte individuali come dimensioni). I risultati, illustrati dalle figure seguente, indicano che vi sarebbe una differenza tra esiti nella tassazione del reddito delle persone fisiche e in quella delle imprese, anche se si vede chiaramente che c’è un “effetto Laffer” per quanto riguarda l’economia nel suo complesso.

Dal grafico precedente vediamo come al crescere dell’aliquota fiscale diminuisce il numero di lavoratori, quello di imprese e – coerentemente – il gettito fiscale. Inoltre, anche basandomi solo ed esclusivamente su quello che è lo studio dei coniugi Romer, potrebbe non essere difficile o azzardato o inferire che una minore tassazione implica maggior reddito che – date le propensioni marginali al consumo e al risparmio della popolazione in analisi – si traduce in una certa allocazione dello stesso in risparmio (e quindi in investimento) e in consumo, con i quali viene a sua volta determinato il PIL e dunque anche il gettito fiscale. I risultati – quindi – ci dicono delle cose molto interessanti: da un lato viene confermato l’effetto Laffer per quanto riguarda l’esistenza di un punto di massimo ed un punto di minimo; mentre dall’altro ciò ci dice che questo massimo verrebbe a collocarsi in un punto molto a sinistra della curva (introno al 20% di carico fiscale).  Chiaramente, questa mia analisi non vuole essere esaustiva né pretende di mettere la parola “fine” alla questione del massimo nella curva di Laffer: non ho considerato aspetti della tassazione come i contributi a carico del datore di lavoro/lavoratore, né ho risolto i limiti del modello in sé (ossia che ignora totalmente l’esistenza di altri fattori); per cui tutti i limiti “lafferiani” rimangono vivi e vegeti, così come è vero che la maggioranza degli economisti sostiene che non è detto che la curva di Laffer sia valida dal momento che le persone – vedendosi il loro reddito ridotto – offrirebbero più e non meno lavoro. Una linea controargomentativa che mi sento di supportare in merito è che in un libero mercato, i redditi sono determinati dalla capacità di un soggetto di offrire un bene o un servizio ad un consumatore e di allocare i fattori di produzione in tal senso variando direttamente in proporzione della qualità di tali servizi. Imporre dei disincentivi proprio a quei soggetti economici che hanno servito meglio e/o il maggior numero di consumatori significa danneggiare non soltanto i produttori ma anche i consumatori. Una struttura dei tributi impostata secondo il criterio della progressività è quindi compatibile con una paralisi del sistema di incentivi, della mobilità dell’occupazione e un impedimento alla capacità del mercato di sorbire i consumatori: di conseguenza, il tenore di vita generale verrà ridotto. Per confutare tutto ciò, si è spesso usato come argomento il fatto che l’utilità marginale della moneta di ogni uomo aumenta quando le sue disponibilità monetarie diminuiscono e che, pertanto, ci potrebbe essere un aumento dell’utilità marginale a causa del ridotto reddito ottenibile dal lavoro corrente svolto. In altre parole, è vero che lo stesso lavoro ora procura a ogni uomo meno denaro, ma questa stessa riduzione del reddito monetario potrebbe far aumentare l’utilità marginale di un’unità monetaria fino al punto che l’utilità marginale del suo reddito totale aumenterà ad egli sarà indotto a lavorare più duramente in seguito all’imposta sul reddito. Questo potrebbe essere benissimo vero in alcuni casi e non c’è niente di contrario all’analisi economica in questo ragionamento. Tuttavia, è difficile sostenere che ciò costituisca una fortuna per l’uomo o per la società; infatti, se si lavora di più, si perde tempo libero ed il tenore di vita delle persone è minore a causa della perdita forzata. Tutto questo lo possiamo vedere anche qui, prima che mi si accusi di essere “ideologico”.

Tuttavia, un altro difetto della curva di Laffer è che non tiene conto dell’altro lato delle poste di bilancio, ossia la spesa. In effetti, uno dei limiti della curva di Laffer è che considera solo il lato della tassazione senza curarsi minimamente dei fattori che influiscono sulla crescita; fattori tra i quali vi è, come vedremo tra poco, anche la spesa pubblica. Come ogni corso di macroeconomia insegna, infatti, il Prodotto Interno Lordo di una data nazione (supponendo per semplicità un’economia chiusa, dal momento che ai fini della nostra analisi è indifferente avere o meno scambi con l’estero) viene misurato dall’equazione

; dove “Y” è il Prodotto Interno Lordo (PIL), “C” è la spesa per consumi e “G” è la spesa pubblica.  Il ragionamento keynesiano è il seguente: dal momento che non è valida la legge di Say, è la domanda a creare l’offerta, per cui non è detto che la domanda si mantenga a un livello tale da garantire un’offerta, e dunque un reddito, di piena occupazione. In particolare, non è detto che il risparmio disponibile si traduca in investimento, perché le due grandezze dipendono da fattori differenti: il risparmio dipende dal reddito, l’investimento dal tasso di interesse e dalle prospettive future di profitto. La crisi nasce da una caduta di fiducia degli imprenditori. Se gli imprenditori sono pessimisti relativamente al futuro, dunque prevedono prospettive di profitto negative, contraggono gli investimenti (importanza delle aspettative, e in generale del fattore psicologico – cfr. i cosiddetti “animal spirits”). Questo mette in difficoltà le imprese che producono beni di produzione, le quali dovranno ridurre la produzione e licenziare lavoratori, alimentando ancora di più la caduta di domanda, che ora si estende anche al settore dei beni di consumo. Lo Stato, a questo punto, deve intervenire spendendo (possibilmente a deficit) per compensare la caduta della domanda privata e ristabilire il sistema economico sul sentiero della piena occupazione.

Tuttavia ci sono delle ragioni economiche di fondo in virtù delle quali la spesa pubblica (perlomeno, un eccesso ed una cattiva qualità della stessa) potrebbe essere dannosa. Infatti, una delle supposizioni che animano la convinzione keynesiana che la spesa pubblica possa riportare il sistema economico nel punto di pieno impiego è che vi sia una tale quantità di risorse inutilizzate che un qualsiasi aumento della domanda non farà aumentare né i prezzi né i tassi di interesse da riconoscere ai sottoscrittori dell’inevitabile debito pubblico che si andrà a generare quando si adotta la politica keynesiana della spesa a deficit. Una supposizione – questa – che è molto forte e che non è detto che sia vera. Come per quanto riguarda i prezzi, il fatto che vi sia una quantità di risorse (temporaneamente) inutilizzate non necessariamente è indice di una crisi economica: immaginiamo che i consumatori decidano di risparmiare e riducano la loro domanda di beni di consumo. Se i prezzi sono lasciati liberi di fluttuare, accadrà sicuramente che vi saranno delle risorse inutilizzate (capitale e lavoro) nei settori dei beni di consumo, ma chiediamoci un attimo se questo è un male. L’eccesso di risparmio rispetto all’investimento provoca una riduzione del tasso di interesse, che a sua volta fa aumentare l’investimento. Questo farà impiegare i beni non venduti dalle imprese produttrici di beni di consumo come capitale negli investimenti stimolando dunque la domanda degli stessi unitamente alla domanda di maggiori lavoratori nelle industrie che hanno investito, facendo sì che alla fine la domanda aggregata si eguaglia alla maggiore offerta. L’obiezione classica dei keynesiani è che i prezzi non sono mai completamente flessibili. Certo che non lo sono signori: ma il fatto è che se guardiamo il fenomeno di aggiustamento dei mercati rilassando alcune delle ipotesi, scopriamo che il sempiterno equilibrio che – come ho detto – nessun economista classico serio ha mai detto di essersi verificato, non lo interpretiamo come uno stato finale effettivamente realizzato ma come una tendenza, un processo con il quale vengono coordinate quantitativamente e qualitativamente le azioni di imprenditori, capitalisti e consumatori e che in ultima analisi rendono efficiente il sistema economico. Il che mi porta a chiedere: per quale motivo se i prezzi sono di per sé (ossia senza che vi sia intervento esterno) tendenzialmente flessibili dobbiamo lamentarci della loro “stickyness” andando a mettere calmieri, salari minimi e regolamentazioni? Per dirla con Churchill, questo atteggiamento è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico. Non la strategia che io oserei definire “ottimale”, my friend.

Il fatto è che Keynes non crede che il sistema dei prezzi possa, da solo, rimettere il sistema sul sentiero della crescita; una credenze che è alla base del suo rigetto della legge dei mercati enunciata da J.B. Say. In particolare, nel “confutare” la legge di Say Keynes si sofferma su uno stralcio di John Stuart Mill:

“Quello che costituisce il mezzo di pagamento dei prodotti sono semplicemente i prodotti stessi. Lo strumento per pagare la produzione delle altre persone, consiste in ciò che la persona stessa possiede. Tutti i venditori sono inevitabilmente, e per il significato stesso della parola, compratori. Per poter raddoppiare la capacità produttiva del paese, dovremmo raddoppiare l’offerta di prodotti in ogni mercato; ma dovremmo allo stesso modo raddoppiare il potere d’acquisto. Ognuno porterebbe una domanda doppia come anche offerta doppia; ognuno sarebbe capace di comprare il doppio poiché ognuno avrebbe il doppio da offrire in cambio”.

È chiaro che questo solo stralcio non basta per confutare la legge di Say; quindi, come ha fatto notare Hazlitt e prima di lui Anderson, è opportuno citare anche il prosieguo:

“Se abbiamo raddoppiato la capacità produttiva del paese, non dobbiamo raddoppiare l’offerta di materie prime in ogni mercato, e se l’avessimo fatto, non dovremmo compensare i mercati con l’offerta doppia in ogni mercato. Se raddoppiamo l’offerta nel mercato del sale, per esempio, dovremmo avere un eccesso di sale spaventoso. I grandi aumenti si generano dove la domanda di crescita è elastica. Dovremmo cambiare radicalmente quelle proporzioni in cui abbiamo prodotto materie prime”.

Ma, ancora una volta, non è questa la vera essenza della Legge dei Mercati; perché – in effetti – se Keynes avesse avuto l’accortezza di citare le tre righe immediatamente successive avrebbe scoperto che il suo intero ragionamento è estremamente falsato. In effetti, le tre righe successive di Mill dicono quanto segue:

“È probabile, infatti, che ci possa essere un’eccedenza di alcuni beni. Anche se la comunità volesse raddoppiare i consumi aggregati, avrebbe già tanto quanto desidera di alcuni beni e potrebbe preferire produrre più del doppio del consumo degli altri, o esercitare la crescita del potere d’acquisto su un nuovo bene. Se fosse così, l’offerta si adatterà di conseguenza ed il valore dei beni si avvicinerà al costo di produzione”.

In altre parole, la dottrina secondo cui la produzione di un uomo costituisce il suo potere d’acquisto e di conseguenza costituisce la base per il suo consumo si basa sul fatto che, a condizione che i prezzi siano lasciati liberi di fluttuare e di aggiustarsi tra di loro, non può esserci alcuno squilibrio permanente (per quanto lungo) in un dato sistema economico. Sul mercato i produttori scambiano i loro beni con moneta e usano la moneta ricevuta per comprare i beni di altri. Dunque l’offerta di un bene costituisce, al fondo, la domanda di un altro bene (o di altri beni). Se sono stati prodotti beni che non vengono acquistati, il loro prezzo cala, stimolando la domanda finché non viene venduto tutto l’ammontare. Naturalmente, Say e gli economisti “classici” non presuppongono una irrealistica condizione di equilibrio “immutabile”; al contrario, sostengono che il lasciare i prezzi liberi di fluttuare (e quindi, in una certa misura, consentire l’esistenza di “equilibrio dinamico”) è la precondizione per raggiungere l’equilibrio da essi descritto. Chiaramente, non si nega in questa sede che tale equilibrio possa essere mai raggiunto, ma il sistema economico tende asintoticamente al raggiungimento dello stesso quando le grandezze del sistema economico sono lasciate libere di aggiustarsi. Il fatto che non lo facciano, vuol dire che vi sono dei prezzi, dei saggi salariali o dei saggi salariali rispetto ai prezzi che sono distorti rispetto a quelli che avrebbero dovuto essere. La raccomandazione di politica economica sarebbe, quindi, quella di rimuovere le distorsioni e non –come prescritto dal sistema keynesiano – di aumentarle mediante politiche economiche espansive dal punto di vista fiscale e restrizioniste dal punto di vista del mercato del lavoro. E il fatto è che nemmeno i keynesiani più ardenti e famosi (come Don Patinkin e Franco Modigliani) credono alla favola della sottoccupazione: semplicemente è un problema di flessibilità di prezzi e quindi è quello l’ambito in cui si deve – semmai – intervenire.

Ma se è vero questo, ossia che se il sistema dei prezzi può allocare le risorse in modo tendenzialmente efficiente (una sorta “efficienza semiforte” del sistema dei prezzi, i quali sintetizzano tutte le informazioni di dominio pubblico); allora è vero che potrebbe non esserci alcun risparmio inutilizzato di cui lo Stato possa entrare in possesso senza creare danni; quando lo Stato entra in concorrenza con i privati per il risparmio disponibile, determina una diversione delle risorse dai privati, più efficienti e produttivi, allo Stato, inefficiente e improduttivo, e dunque la conseguenza è il consumo di capitale e un innalzamento del tasso di interesse reale. Aumentando la domanda di fondi mentre l’offerta degli stessi rimane invariata, la spesa pubblica concorre con i privati per i fondi disponibili, in tal modo li riduce a questi e fa aumentare il tasso di interesse, provocando uno “spiazzamento” (crowding out) degli investimenti privati: l’aumento della spesa pubblica e, quindi, del debito, provoca una riduzione dell’offerta aggregata e quindi un aumento del tasso di interesse e quindi del risparmio-investimento dei privati. Banalmente, un aumento della domanda aggregata via aumento della spesa pubblica fa sì che lo Stato debba finanziarsi tramite l’emissione di titoli, il che innesca una competizione fra Stato e privati per acquisire i fondi necessari agli investimenti privati e alla spesa pubblica. Nella competizione fra settore privato e settore pubblico il tasso di interesse aumenta in maniera tale da provocare una contrazione degli investimenti privati. Se questo accade il reddito tende a restare invariato. Il tasso di interesse non aumenta solo per questo motivo. Infatti, se il deficit di bilancio è coperto tramite l’emissione di titoli di Stato, l’offerta di titoli cresce, il loro prezzo diminuisce ed il tasso di interesse aumenta. Inoltre può anche verificarsi (ed anzi spesso si verifica) che se la spesa pubblica viene finanziata tramite l’emissione di titoli del debito pubblico, lo Stato prende a prestito dei soldi dai risparmiatori (i sottoscrittori dei titoli) e trasferisce il denaro ad altre persone, ovvero coloro ai quali la spesa pubblica addizionale è indirizzata. In queste circostanze tuttavia l’ammontare complessivo di moneta in circolazione resta invariato. Se per coprire il deficit di bilancio lo Stato fa ricorso all’emissione di titoli, l’aumento dell’offerta di questi ultimi provoca una riduzione del loro prezzo ed un aumento del tasso di interesse. Se il tasso aumenta, lo Stato vende i titoli che emette e l’aumento del tasso di interesse ha l’effetto di scoraggiare la spesa privata. Aumentando il tasso di interesse diminuisce il livello di investimenti privati cosa che – a sua volta – riduce l’offerta di breve periodo che – al nuovo livello di domanda aggregata – fa aumentare i prezzi in quanto si riposiziona su una minore offerta aggregata. Questo provoca una salita ulteriore del tasso di interesse, dal momento che – essendo il tasso di interesse il prezzo dei fondi mutuabili (ossia di beni e servizi reali) – l’offerta di fondi mutuabili è ridotta a causa della maggior domanda degli stessi da parte del governo; e quindi vi sono meno risorse investibili nel sistema economico da parte dei privati. Di conseguenza, la spesa pubblica spiazza gli investimenti privati riducendo l’offerta di fondi mutuabili e quindi degli investimenti e – in ultima analisi – dei beni e servizi nel sistema economico.

Ed è con questa consapevolezza, ossia che si può verificare una situazione tale per cui la spesa pubblica possa “spiazzare” gli investimenti privati, che ci spinge alla nostra domanda iniziale: stabilire se c’è una dimensione “ottimale” del governo, dove la crescita economica viene massimizzata. A questo scopo abbiamo la meno nota “curva di Armey”, che cerca di dare una risposta alla nostra domanda. Questa curva – elaborata nel 1995 dal senatore repubblicano e studioso di economia Dick Armey – mette in relazione sull’asse delle ascisse la spesa pubblica in percentuale del PIL, mentre sull’asse delle ordinate viene messo il tasso di crescita del PIL come misura della performance economica di una data nazione. La logica dietro la curva di Armey – per certi versi – è analoga a quella della curva di Laffer: c’è un’area della curva in cui la crescita della spesa pubblica rispetto al PIL ha un impatto positivo sulla crescita economica, spesa pubblica che ha a che fare con la costruzione di un apparato per l’implementazione della giustizia, la costruzione delle infrastrutture di base e investimenti in ricerca e sviluppo. Si giunge così ad un certo punto della curva in cui viene massimizzata la crescita economica ed in cui si raggiunge il livello “ottimo” di spesa pubblica (coincidente con il punto fino al quale la politica fiscale non produce spiazzamento), dopo il quale la spesa pubblica cresce ma l’economia entra in recessione. La curva di Armey, insomma, è basata sulla stessa logica della curva di Laffer e – non a caso – assume la stessa forma “a campana”.

Come scritto in un articolo di Antonio Mele:

“Mentre la curva di Laffer è un risultato teorico di molti modelli di tassazione ottima, la curva di Armey non ha una fondazione rigorosa generalmente accettata. Ma esistono vari modelli che spiegano come un eccesso di spesa pubblica possa essere negativo per la crescita. Possiamo dividere gli effetti della spesa in due filoni: quello dal lato dell’imposizione fiscale, e quello dal lato della spesa vera e propria. Come noto, l’imposizione fiscale introduce una distorsione nel comportamento degli agenti economici, e pertanto riduce l’efficienza. Ovviamente quando la spesa da finanziare é elevata, le tasse saranno anch’esse elevate, e la distorsione generata sará maggiore. Se poi analizziamo il fenomeno da un punto di vista dinamico, una imposizione fiscale molto elevata su redditi da lavoro e da capitale riduce la crescita tramite la disincentivazione all’accumulazione di capitale (sia fisico che umano). Dal punto di vista della spesa, gli effetti sono meno chiari. Ci sono delle attività dello Stato che anche il più incallito libertario probabilmente riterrebbe necessarie, come appunto la tutela dei diritti di proprietà e l’enforcement dei contratti privati, ma anche la difesa del territorio nazionale. D’altronde, vi sono impieghi delle risorse pubbliche che anche il più incallito statalista vedrebbe come negativi, come tutte le attività di clientelismo che trasferiscono denaro pubblico verso gli elettori di un determinato politico interessato a ottenere vantaggi elettorali. E ancora, da un punto di vista dinamico, la spesa pubblica può essere positiva per la crescita nel caso in cui sia complementare alla spesa privata (un caso è quello della tutela dei diritti di proprietà), mentre nel caso in cui sia sostitutiva può rallentare la crescita. Un esempio di quest’ultimo effetto sono i generosi sussidi ad imprese in settori maturi, dove la ricerca e lo sviluppo sono nulli. In tal caso, il governo drena risorse dalle imprese più produttive e tecnologicamente avanzate per distribuirle a imprese che in molti casi dovrebbero essere già fuori mercato, mantenendole in vita artificialmente (pensiamo per esempio alla politica agricola europea). Non solo, ma incentiva la nascita di imprese proprio nei settori che ricevono sussidi, riducendo invece, tramite una maggiore pressione fiscale, gli incentivi al rischio in settori nuovi e ad alto contenuto tecnologico e innovativo”.

Le evidenze che supporterebbero la curva di Armey e che ci indicano quale possa essere il livello “ottimo” di spesa pubblica, d’altra parte, sembrano notevoli. Una prima linea argomentativa in tal senso è quella illustrata da Presson e Tabellini in un loro paper del 2002, in cui si mostra che politici e cittadini hanno obiettivi differenti (rielezione e massimizzazione del consenso i primi, benessere della propria famiglia i secondi) un fatto questo che tende a rendere inefficiente la gestione della spesa pubblica. In termini di dati, molto importante è il contributo dato da Tanzi e Shuckneckt con il loro libro “La spesa pubblica nel XX secolo”, in cui si dimostra che – cito l’articolo in cui sono stati a loro volta menzionati –

“La crescita secolare della spesa pubblica abbia portato miglioramenti sociali ed economici abbastanza limitati, in particolare negli ultimi 35 anni. Se si eccettua una riduzione della disuguaglianza nei redditi (che non é detto sia sempre un risultato desiderabile, visto che la maggiore disuguaglianza ha anche effetti positivi, tramite i maggiori incentivi all’accumulazione di capitale umano), tutti gli altri indicatori socioeconomici che il loro studio prende in considerazione (quali per esempio tasso di crescita, accumulazione di capitale, inflazione, disoccupazione, speranza di vita, mortalità infantile) non risultano essere particolarmente migliori in paesi con elevata spesa pubblica”.

Andando ancora avanti (o meglio, indietro nel 1996) Alesina, Ardagna, Perotti e Schiantarelli ci dicono che la spesa pubblica può “spiazzare” gli investimenti privati e che tale effetto di spiazzamento può verificarsi tramite un aumento del costo del lavoro, che implica minori profitti e quindi un calo degli investimenti privati. Sempre rimanendo nell’ambito degli economisti italiani, troviamo un secondo studio di Alesina e Fuchs del 2006, in cui si mostra la persistenza della spesa pubblica inserendo l’effetto chiamato “goodbye Lenin”, in virtù del quale le preferenze degli individui per una maggiore spesa pubblica sono molto persistenti, per cui una volta generato un aumento, diventa molto difficile per un Paese democratico far diminuire la spesa. Come riporta l’articolo di Mele:

“Il lavoro riscontra come, anche controllando per i diversi incentivi economici a cui sono sottoposti dopo la riunificazione, e per le differenze di reddito,i cittadini dell’Est continuino sistematicamente ad essere più favorevoli ad un maggiore interventismo statale. L’effetto é sostanzialmente piú forte nei soggetti più anziani, che hanno vissuto sotto il regime comunista piú a lungo. Un loro calcolo reputa necessari tra i 20 e i 40 anni affinché la riunificazione elimini del tutto gli effetti del regime comunista sulle preferenze individuali. In parole povere, ogni volta che un governo decide di aumentare la spesa pubblica, sta generando due effetti: uno di medio periodo, che genera più o meno crescita a seconda che ci si trovi a sinistra o a destra del picco della curva di Armey; e uno di lungo periodo sulle preferenze politiche degli individui, che genererà persistenza nel livello di spesa pubblica”.

Inoltre, un altro studio tenta di individuare una curva di Armey per il sistema federale svizzero trovando dei risultati molto interessanti anche in termini di policy: in questo studio si conclude la spesa pubblica corrente (per capirci, i sussidi) ha un effetto negativo sulla crescita, mentre la spesa per investimenti non ha nessun impatto; il che vuol dire – come concludono gli autori – che se i cantoni svizzeri si trovassero sul tratto crescente della curva allora gli investimenti avrebbero un impatto positivo sulla crescita ed il fatto che ciò non accade vuol dire che i cantoni svizzeri si trovano sulla parte decrescente della curva di Armey.

Ma ora arriviamo alla questione “clou” ­: scontato che “troppa” spesa pubblica fa male, che numeretto affibbiamo a quel “troppo”? Le risposte in merito sono contrastanti, sebbene tutte orientate ad una definizione di “troppo” decisamente restrittiva. I primi a porsi il problema di quanto “troppo” fosse la spesa pubblica sono stati Vedder e Galloway nel 1998, che – come cita l’articolo –

“[…] stimano un livello ottimale di spesa pubblica per gli Stati Uniti pari al 17.45% del PIL per il periodo 1947-1997. Stimano inoltre una Armey curve di lungo periodo (circa un secolo) che implica livelli ottimali di spesa pubblica attorno all’13%. In una comparazione di lungo periodo, vengono stimati i livelli ottimali di spesa pubblica per vari Paesi: Svezia 19%, Italia 22%, Danimarca 26%, Canada e Regno Unito 21%”.

Tuttavia, conclude

“In realtá la tecnica di stima nel lavoro soprammenzionato non pare particolarmente raffinata. Le stime ottenute vanno quindi interpretate con molta cautela”.

Dal momento – però – che sono stati sviluppati ulteriori studi, gli stessi ci danno dei risultati molto interessanti. In un primo studio viene esaminato un set di dati da 17 Paesi OCSE per il periodo che va dal 1977 al 2004, trovando che la dimensione ottima del governo si aggiri attorno al 25% del PIL. In un altro studio, si focalizza l’attenzione su delle economie in via di sviluppo e si fa l’esempio della Nigeria, trovando che in quel caso il livello ottimo di spesa pubblica sia intorno al 20% del PIL. Per portare un esempio più vicino a noi, un altro studio ci dice che il livello ottimo di spesa pubblica per quello che riguarda i Paesi Europei è intorno al 30%, un altro studio, sempre relativamente ai 27 Paesi dell’UE, ci dice che questo livello è leggermente più alto intorno al 37% (livello simile a quello ottimale per l’Italia (circa il 40%), come illustrato da Francesco Forte). In un secondo studio del professor Magazzino si conclude inoltre che

“la dimensione dell’operatore pubblico che massimizza la crescita economica italiana, con riferimento all’intero periodo di stima, è data da un rapporto tra spesa pubblica e P.N.L. pari al 23,06%. Il valore calcolato è in linea con quello trovato da VEDDER e GALLAWAY (1998), pari al 22,23%. Invece, restringendo l’analisi al solo periodo del secondo dopoguerra (1950-1998), la dimensione pubblica associata al massimo tasso di crescita del prodotto nazionale risulta pari al 32,83%. Tale valore non si discosta sensibilmente dalla stima del 37,09% contenuta in PEVCIN (2008)”.

Facendo una media di tutti i risultati raccolti, troviamo che il punto ottimale di spesa pubblica medio è pari ad una spesa pubblica rispetto al PIL che è al 29,69%. Un valore tutto sommato molto “basso”, se considerate che oggi – solo in Italia – viaggiamo a cifre che eccedono di circa 20 punti percentuali questa media (e comunque superiore di 11,5 punti percentuali a quello che è l’ottimo rispetto ad un’economia molto simile alla nostra come la Spagna). In media, ossia considerando la differenza tra l’ottimo medio calcolato per l’Italia e per la Spagna e il valore effettivo della spesa pubblica su PIL relativa all’Italia, troviamo che siamo di 10 punti percentuali sopra il punto di ottimo (40%+37+22,23%+23,06%+37,09%+40% diviso cinque fa 31,042%; meno il nostro 48,5% del 2019 fa 17,458%).

A questo punto, possiamo mettere assieme le due “curve” e cercare di ricavare delle conclusioni. Il risultato viene illustrato di seguito:

Ci sono tre punti: il punto “A” in cui sia nel caso della curva di Laffer sia nel caso di Armey abbiamo un esito subottimale, ossia un punto in cui una maggiore crescita dell’aliquota fiscale e della spesa (magari in R&S o in infrastrutture) ha effetti positivi sull’economia, il punto “B” in cui sia la spesa pubblica sia il carico fiscale raggiungono il loro punto di ottimo (ossia non disincentivano l’attività economica) ed il punto “C”, in cui una maggior spesa (cui devono seguire necessariamente maggiori tasse – indipendentemente dal fatto che esse siano tasse presenti o debito e quindi tasse “future”) vanno a disincentivare l’attività economica. La politica fiscale ideale, insomma, sarebbe quella in virtù della quale si fissi un livello di spesa pubblica tale per cui venga massimizzata la crescita del PIL e che – quindi – consentirebbe di massimizzare (via crescita economica) le entrate fiscali con una data aliquota ottimale.

Come ho detto prima per la curva di Laffer, questa analisi è molto limitata e limitante: in primo luogo perché la politica fiscale è una delle determinanti (e non la sola ed unica) della crescita economica; andrebbero considerati fattori come la flessibilità dei prezzi e dei salari (che aiuterebbero all’efficientamento del sistema economico), la formazione di capitale fisico ed umano (ossia il tasso di risparmio e l’occupazione), nonché la produttività e la correlata questione della dimensione delle imprese (che è un fattore a sua volta influenzato dalla politica fiscale), i livelli di corruzione ed altri fattori. Tuttavia, per quello che sappiamo e per quello che sia la teoria economica sia i dati ci dicono che meno tasse e spesa contenuta e concentrata su investimenti intelligentemente progettati in settori come R&D (un buon progresso in questo senso è il Piano Amaldi, la cui implementazione potrebbe essere organizzata come in Germania dove la ricerca è a sovvenzione pubblica solo per il 30% e il resto è fatto dai privati mediante contratti con industrie o da bandi per progetti di ricerca applicata, sia a livello nazionale che internazionale), tagliando le spese in conto corrente e così realizzando avanzi di bilancio (con cui abbattere il debito) possono (e devono) rappresentare alcune delle linee guida di qualsiasi politica di riforme che abbia a cuore le sorti del Paese.

7 commenti

  1. Con piacere ho trovato citato Nozick: Anarchia, stato e utopia è il primo libro “scorretto” che ho letto. Sono curioso di sapere se il vs ottimale perimetro dello Stato comprenda, oltre la protezione da minacce estere e la gestione della giustizia, anche l’emissione della moneta, considerando che non pare siate contrari all’esistenza, accanto a banche commerciali, di banche di emissione, di cui auspicate non l’inesistenza, ma un minore attivismo. Inutile sottolineare che polemiche tra anarchici e minanarchici lasciano il tempo che trovano: con l’aria che tira, specie in Italia, uno Stato minino sarebbe grasso che cola.

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    • La questione del sistema bancario ottimale è complessa e richiede di ragionare in due ottiche: una economica e l’altra giuridica. Per quanto riguarda la parte economica, in un sistema di free banking verrebbero premiate le banche che hanno le monete più solide, il che vuol dire che ad un certo punto il mercato dei servizi bancari raggiungerebbe una concentrazione molto alta tornando agli esisti oligopolostici/monopolistici di adesso. Poi c’è il tema “ciclo economico” : è vero che in un sistema privo di banca centrale si renderebbe, in linea di principio, ad un raggiungimento di una pressoché identità tra saggio monetario e saggio naturale di interesse, per cui non si dovrebbero verificare cicli economici. Tuttavia non è detto che ciò accada, ossia non è detto che saggio monetario e saggio naturale siano sempre uguali, per cui – come descrive in un suo saggio C. Ferlito – anche in una economia di puro libero mercato si avrebbe una sorta di “ciclo naturale”, differente dal tradizionale ABCT per entità e velocità di ripresa del sistema economico. Inoltre rimane il tema della vigilanza: dagli anni Ottanta (se non sbaglio il primo accordo di Basilea risale al 1983) si è andata sviluppando sempre di più una legislazione sulla vigilanza che rende l’attività bancaria privata molto, molto regolamentata (tanto che il settore bancario e finanziario in generale viene sovente preso come benchmark per quanto riguarda il livello di regolamentazione). Tutto questo ha non solo evitato (al netto di crisi finanziarie come quella del 2008) grandi scossoni a livello finanziario, ma ha anche consentito di sviluppare delle forme di “fallimento” delle imprese creditizie che non fanno ricorso ai soldi del contribuente (cito una su tutte la famosa direttiva BRDD, con la quale è stato introdotto il meccanismo di Bail In in virtù del quale a pagare per le manovre allegre della società bancaria sono azionisti, obbligazionisti subordinati e vengono tutelati i piccoli depositanti (ossia quelli fino a 100k euro) e in virtù del quale è stato creato il fondo di assicurazione dei depositi per “smussare” le eventuali conseguenze negative di una crisi bancaria). Di questo però ne parlerò le prossime due settimane, ma intanto lascio un paper del Quarterly Journal of Austrian Economics per capire quale può essere un primo passo avanti per limitare la discrezionalità delle banche centrali:

      https://qjae.scholasticahq.com/article/11539-negative-inflation-targeting-a-proposal-of-a-non-distortionary-monetary-policy

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  2. La dimensione delle banche e l’andamento del ciclo economico sono un prodotto dell’azione umana e quindi di per sé perfettibili. Compito dell’economia è studiare le ottimali dimensioni delle une e il meno dannoso andamento dell’altro. Ma torniamo sempre a bomba: CHI è legittimato a sostenere che ci siano “imperfezioni” e porre ad esse rimedio? Le LIBERE scelte del mercato (nascenti dalle conoscenza diffuse tra i singoli operatori) o le VIOLENTE scelte degli Stati (nascenti da politici non necessariamente illuminati, che comunque giocano a monòpoli con i soldi degli altri)? PS. Ti mando un link con le personali convinzioni dell’inesperto vetrioloblog: https://vetrioloblog.wordpress.com/2018/04/15/ciclo-economico/

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    • La vignetta è davvero molto simpatica, complimenti davvero. Sulla questione della struttura di mercato posso essere anche d’accordo (e in effetti lo sono) con la concorrenza tra diversi istituti di credito. Tuttavia un’autorità di Vigilanza (che stia ferma quanto più possibile con la politica monetaria seguendo le grandezze di mercato – quale, appunto, il tasso di interesse naturale) è necessaria. Di come potrebbe essere delineata una regola di politica monetaria che vada a realizzare tutto ciò ne parlerò nelle prossime due settimane. Ma questo è ciò che differenzia un miniarchico da un AnCap, quindi ci sta questa differenza. L’importante è avere ben chiaro che l’avversario comune è uno: l’interventismo. Sul resto si può anche ragionare poi 👍🏻

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