Capacità “oziosa” e produttività: obiezioni e risposte alle impasse dell’ABCT

Nell’articolo di qualche domenica fa ho provato a delineare una riscrittura dello Austrian Business Cycle Theory secondo i canoni della teoria economica “standard”. Devo dire che sono rimasto molto contento del risultato, dal momento che ho scoperto con mia grande sorpresa di aver ricevuto da entrambe le parti (austriaci e monetaristi) delle ottime risposte e feedback. L’articolo di oggi è – se volete – una piccola postilla a quanto ho detto, con cui voglio sottolineare degli aspetti che non ho potuto, a causa della lunghezza del precedente articolo, trattare qualche giorno fa; Oggi voglio solo fare due puntualizzazioni che mi sembrava doveroso fare, non solo per completezza con quanto ho scritto qualche giorno fa ma anche perché mi sono stati fatti notare – da alcuni amici non austriaci – alcuni limiti della teoria del ciclo economico ai quali con il mio precedente articolo non ho potuto rispondere, per cui – se non l’avete già fatto – vi consiglio di andarvi a recuperare l’articolo che vi dicevo.

Il primo dei due limiti che mi sono stati mossi alla “mia” teoria austriaca del ciclo economico è che – come l’originale – manca di considerare il fatto che in situazioni di “sottoccupazione” la teoria in parola risulterebbe fortemente indebolita, dal momento che in presenza di capacità produttiva inutilizzata ci potrebbe essere spazio per stimoli alla domanda per mezzo della politica monetaria. Per delineare teoricamente la mia risposta alla summenzionata obiezione, occorre introdurre qualche termine presente anche nella teoria economica standard a partire dal concetto di “submarginalità”. Riferito ad un’impresa, il “submarginalità” vuol dire che dato il prezzo di mercato del bene prodotto, un’impresa sostiene dei costi medi superiori a quelli sostenuti dalle altre imprese operanti nello stesso settore: essa potrà vendere la propria merce soltanto in perdita, cioè ad un prezzo che non è in grado di coprire i costi di produzione. Estendendo tale concetto anche ai beni capitali, possiamo dire che il concetto di submarginalità lo si può definire come quella situazione in cui l’impiego di un dato bene comporta dei costi che sono maggiori dei ricavi (attesi) derivanti dall’impiego di quel bene. È di tutta evidenza che se un certo bene capitale (o un certo fattore di produzione complementare – tema su cui ritorneremo dopo – come il lavoro) è submarginale è parte della capacità “oziosa” dal momento che esso non è impiegabile se non con il sostenimento di costi che sono maggiori dei ricavi attesi. L’obiezione che è stata mossa all’ABCT è la seguente: la teoria austriaca del ciclo economico funziona solo se sia assume una situazione di partenza iniziale di “equilibrio di piena occupazione”. Se, al contrario, si assume che esistano (come è realistico pensare, in effetti) delle risorse inutilizzate il ciclo economico non solo non si verifica ma addirittura ci sarebbe spazio per il raggiungimento del “pieno impiego” delle risorse. A questo punto, la controargomentazione che mi sento di opporre è la seguente: in primo luogo sarebbe interessante sapere cosa si intende per “pieno impiego” delle risorse, per cui si dovrebbe dare una definizione rigorosa di cosa significhi questo termine; in secondo luogo, ci si dovrebbe domandare – alla luce della definizione di “pieno impiego” se tale situazione è coerente con l’esistenza di risorse “inutilizzate”. Da questo punto di vista, la teoria economica standard ci dice che esiste un “tasso naturale di disoccupazione” (o “Natural Rate of Unemployment, NRU) definito come quel tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale vi sia un tasso di inflazione stabile, il che è coerente con l’impostazione neoclassica secondo cui ogni lavoratore che desidera essere impiegato al salario di mercato trova lavoro, mentre tutti gli altri sono lasciati fuori. Il motivo per cui c’è questa disoccupazione “naturale” è che gli individui hanno preferenze diverse, il che fa sì che vi sia una parte di coloro che offrono lavoro che – avendo un salario di riserva più alto di quello di equilibrio, stabilito come uguale alla produttività marginale del fattore lavoro – non sono in grado di generare ricavi attesi tali da poter giustificare il loro impiego. In questo senso, il concetto di “capacità produttiva inutilizzata” coincide perfettamente con quello espresso dalla teoria austriaca; infatti – indipendentemente dalle circostanze che hanno prodotto quella disoccupazione (che possono essere riconducibili a costi di transazione, piuttosto che a fenomeni ciclici passati o fluttuazioni nei dati fondamentali dell’economia come le preferenze dei consumatori o un cambiamento tecnologico) – il fatto che delle risorse sono state disimpiegate riflette il fatto che non sono capaci di generare dei flussi di reddito attesi tali da poter essere impiegati in modo produttivo. Inoltre occorre fare un’ulteriore precisazione su questo aspetto. Anche ammettendo che la capacità produttiva inutilizzata possa attenuare le condizioni per cui si verifica il ciclo economico, ciò non toglie che la stessa teoria perda di validità. Come dicevo, se le risorse sono non impiegate è perché sono submarginali, il che vuol dire che impiegarli sarebbe un costo per l’impresa cui non è correlato un ricavo, in altre parole una perdita. Questo è ancora più vero se consideriamo che i beni capitali durevoli di cui stiamo discutendo hanno spesso una natura eterogenea, per cui hanno bisogno di altri beni (capitali anche questi, ma che da Hayek vengono definiti come “complementari” e che sono grossomodo assimilabili al fattore di produzione lavoro ed al capitale circolante) per essere impiegati. Assi di legno, viti, bulloni, attrezzi ed edifici sono beni capitali: ognuno ha le sue proprietà specifiche che sono eterogenee rispetto a quelle degli altri; alcuni sono specifici, il che li rende impiegabili in una sola linea di produzione, mentre altri sono di impiego generale. Alcuni sono complementari: per produrre qualcosa di utile occorre impiegarli assieme, per cui se non ce n’è abbastanza dell’uno l’altro non serve. Quello che in effetti succede nei fenomeni ciclici è esattamente questo: la capacità produttiva inutilizzata da submarginale che è appare sovramarginale, per cui viene indirizzata verso impieghi non produttivi che – in condizioni normali – o non sarebbero stati intrapresi o avrebbero attratto altre risorse complementari, che invece – a seguito dell’espansione monetaria – si sono dirottati verso questi impieghi “inutili”. In sintesi, il fatto che ci sia una “capacità oziosa” è – a mio avviso – perfettamente normale anche in un’economia sana, perché è chiaro a chiunque che una parte delle risorse naturali (terra) e dei beni capitali è strutturalmente submarginale, il che significa che non vale la pena impiegarla perché i beni complementari che sono necessari all’impiego di queste risorse sono di tale qualità che – se impiegati – non risulterebbero profittevoli. Usare stimoli monetari per utilizzarli vuol dire – in effetti – tenere in vita aziende che non sopravvivrebbero altrimenti, con effetti depressivi sulla produttività ed efficienza del sistema economico nel suo complesso; il che porta a concludere che l’esistenza di capacità “oziosa” non è incoerente – quanto – piuttosto, complementare alla teoria austriaca dal ciclo economico. Questo processo, paradossalmente, è stato spiegato – oltre che dagli esponenti della Scuola Austriaca – anche d James Buchanan e Richard E. Wagner, due personalità di spicco della Scuola delle Scelte Pubbliche (Public Choice) una delle Scuole standard ad oggi più famose ed influenti e che possiamo certamente definire non austriache, quando scrivono[1] che

“L’inflazione altera i tassi di rendimento che gli individui possono ottenere da diversi tipi di attività. La distribuzione dello sforzo tra attività ed opportunità sarà diversa tra un ambiente inflazionistico e uno non inflazionistico. Al momento in cui l’inflazione si manifesta, il rendimento di attività direttamente produttive diminuisce rispetto alle attività rivolte all’adattamento stesso all’inflazione. […]. Ma oltre alle distorsioni dirette tra le opportunità di guadagno, l’inflazione genera alterazioni della struttura produttiva fondamentale dell’economia e disturba il funzionamento del mercato. Vengono prodotti dei cambiamenti nei prezzi relativi che, a loro volta, modificano le tendenze all’impiego di risorse. […]. Come risultato, viene presa una varietà di decisioni che non possono essere giustificabili nel lungo periodo. Verranno impiegate risorse in attività che non si possono mantenere a lungo, perché la tendenza della domanda dei consumatori è incoerente con la prevista tendenza della produzione [la trattazione di questo punto si è avuta anche in: David Meiselman, “More Inflation, More Unemployment” originariamente pubblicato su “Tax Review” del Gennaio 1976, nota a piè di pagina al libro originale numero 13, capitolo 5, pagina 78 del libro citato].

Ci sono, quindi, delle linee di continuità tra quello che è il pensiero austriaco e quello più “ortodosso” (ripeto: a me non piace questo termine) della Public Choice.  

Il secondo limite con cui mi sono confrontato è quello relativo ad un aumento dell’aumento della produttività – per l’appunto derivante dall’impiego di capacità oziosa – nelle prime fasi del ciclo economico, un evento – questo – che dovrebbe compensare la scarsità di risorse reali all’interno del sistema economico e che dovrebbe “smorzare” la dinamica ciclica. La risposta a questa obiezione è, in effetti, simile a quella di prima, sebbene con alcuni elementi nuovi. In effetti, è effettivamente possibile che in un primo momento la capacità produttiva inutilizzata venga impiegata per incrementare la produttività e “coprire” la scarsità di risparmio, tuttavia le cose da considerare sono due. In primo luogo, va considerato che tanto nella versione “standard” quanto nella mia versione “modificata” è stato indicato in maniera abbastanza chiara il fatto che durante la dinamica ciclica, si verifica un “consumo di capitale”: dal momento che si vanno a destinare maggiori risorse all’investimento si aumenta il tempo con il quale i prodotti finali (i beni di consumo) arrivano alla vendita al dettaglio (ossia al consumatore finale), il che – unito al fatto che i prezzi dei fattori produttivi aumentano per la maggior domanda nelle fasi della struttura della produzione lontane dal consumo e che quindi (non essendo mutata la propensione al consumo dei percettori di questi redditi) viene stimolata la domanda per i beni di consumo stessi – produce un rialzo dei prezzi dei beni di consumo. Questo fatto produce un declino dei salari reali, perciò il fattore lavoro risulterà più economico dei beni capitali. Per far fronte all’aumento della domanda monetaria di beni di consumo, si contratta più mano d’opera, si aumentano i turni e – in ultima analisi – si cerca di utilizzare al massimo la capacità produttiva già installata portando quindi – alla lunga – ad un deterioramento della stessa e quindi ad una diminuzione della produttività (salvo, s’intende, che nel frattempo si verifichi un progresso tecnico tale e tanto che esso possa più che compensare il consumo di capitale appena descritto). Il che, poi, si traduce nelle dinamiche cicliche che conosciamo, dal momento che un deterioramento della produttività riduce l’offerta di risparmio reale disponibile, il che ci riporta punto e a capo con la teoria del ciclo.

Spero, con questa breve postilla, di essere stato chiaro e di aver risposto – per quanto brevemente – ad alcune obiezioni. Per oggi è tutto, gente!


[1] James M. Buchanan, Richard E. Wagner: “La democrazia in deficit; l’ereditò politica di Lord Keynes”; p.78, Armando Editore, edizione curata da Domenico da Empoli.

2 commenti

  1. Impropriamente adopero l’area commenti per chiedere aiuto. E’ in arrivo una grande mistificazione: l’aumento del PIL grazie al Recovery Found. Sappiamo bene che la formula del PIL comprende anche la spesa pubblica: per cui, se metà del Recovery fosse spesa nello scavare buche riempiendole di bottiglie e l’altra metà nel recuperare le bottiglie stesse, in quell’anno comunque il PIL riporterebbe un aumento. Con il rituale epilogo: passato l’effetto della dose di monetaria droga, pompare altra liquidità per “sostenere l’economia”. Considera che tutto ciò che tra di noi è scontato non lo è affatto per il pubblico, molto meno scafato, della maggior parte dei miei lettori: che devo cercare di non tediare, imboccandoli col cucchiaino dell’ironia. Ammetto onestamente i miei limiti: non sono attrezzato per un articolo del genere. Ma con piacere il tuo lo leggerei e girerei nei social da me “bazzicati”. E magari potrei ricavarci un post come questo:
    https://vetrioloblog.wordpress.com/2020/06/29/buche-bottiglie-e-case/

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    • Vero, il moltiplicatore è una baggianata bella e buona. Tuttavia, in tutti i modelli di crescita (che sono di fatto Neoclassici e quindi “liberisti”) si dice che il fattore chiave per la crescita è l’accumulazione di capitale (fisico e umano); e se è vero che la spesa pubblica contribuisce al consumo di capitale fisico, è anche vero che tagliare la spesa improduttiva (quella corrente, che ad oggi occupa il 67% del nostro bilancio) ed usare parte delle risorse per incrementare gli investimenti in R&D e parte delle risorse per realizzare avanzi di bilancio (e quindi ripianare il debito) potrebbe essere una strategia di riforma fiscale intelligente (il tutto unito a riforme strutturali ovviamente).

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