Politica monetaria e Scuola Austriaca: nemici o alleati? Parte I

Molti dicono che gli Austriaci siano, per partito preso, contrari all’esistenza di una banca centrale. Dal momento che – pur collocandomi nel solco della tradizione misesiana, non ritengo che anchee idee di Friedman in merito al ruolo ed alla natura delle banche centrali (ossia controllare le variabili monetarie in relazione all’andamento dell’economia) siano scorrette – un grande esercizio teorico che spesso mi viene chiesto di fare è quello di conciliare a livello teorico il fatto che – in quanto austriaco – non ci dovrebbe essere una banca centrale e quello “friedmaniano” in virtù del quale l’esistenza di una banca centrale esiste e, volendo, ha un certo attivismo. Un presupposto secondo me centrale, molto pragmatico, è quello di ritenere irrealistico l’abolizione, ad oggi, di una banca centrale: si tratterebbe di ridisegnare dall’oggi al domani l’intero assetto finanziario non solo europeo ma anche mondiale, richiederebbe di trovare un sistema di vigilanza in una società libera (non puoi essere giocatore ed arbitro allo stesso tempo, ossia le banche non possono decidere le regole con cui esse stesse devono giocare), e come risolvere il problema relativo al fatto che siccome nel mercato vengono premiate le monete più solide, alla fine non si ha una sola banca (o un cartello di banche) che controlla l’offerta di moneta, ritornando al paradosso per cui abolendo una sola banca centrale si ritornerebbe ad un sistema simile. Ad oggi, la Scuola Austriaca non fornisce delle risposte coerenti ed argomentate in modo corretto; per questo – in merito all’argomento in oggetto – mi ritengo molto “friedmaniano” (e non me ne vogliano gli ortodossi in ascolto). Let me be clear: per quello che mi riguarda, più le banche centrali stanno ferme con la politica monetaria (o, ed è equivalente, più nell’implementarla seguono le grandezze di mercato) meglio è. Ma il problema fondamentale della vigilanza e delle tendenze alla concentrazione nel settore bancario rimane, il che è un problema complesso che non andrebbe affrontato con un approccio ideologico e/o sbrigativo, ma ragionando sulla teoria economica e sui dati a nostra disposizione. Con questo approccio vi chiedo, quindi, di affrontare la lettura di questo articolo, il quale si pone (cercando umilmente – ossia prendendo questo scritto per quello che è, ovvero non un trattato di economia monetaria ma un articolo di blog – di rispondervi) proprio il dilemma di cosa è desiderabile faccia una banca centrale in un’ottica di stabilità e possibilmente crescita di un’economia.

In questo articolo cercherò di delineare un quadro teorico all’interno del quale si può sviluppare una politica monetaria che sia coerente con delle prescrizioni free-market oriented. Le ragioni che mi spingono a scrivere questo articolo sono essenzialmente due: da un lato confutare le tesi di alcuni soggetti che, nell’ansia di dare contro a quella che ritengo essere una nobile scuola di pensiero economico, fanno ampio ricorso a strawman arguments e banalizzazioni; dall’altro – all’opposto – mi trovo sempre più circondato da soggetti che nel discutere con i soggetti di cui sopra si arroccano su teorie scritte 109 anni fa e che – nel frattempo – non si sono mai “svecchiate” ed evolute, ripetendo gli stessi argomenti ad nauseam senza sapersi rinnovare e trovare risposte a problemi che sono insite nelle teorie che difendono in maniera a mio avviso molto (troppo) ideologica. Di tutto questo, chi segue questo blog, sa che ne ho ampiamente parlato, delineando anche una “mia” versione del ciclo economico da un punto di vista della scuola austriaca e portando una serie di evidenze empiriche raccolte in un sito internet (che lascio anche qui, nel caso foste curiosi/volenterosi di approfondire) che confermano a livello statistico in una misura più o meno evidente che una delle cause principali (non l’unica, anche perché nessun economista o aspirante tale serio ha la presunzione di dire che i cicli economici sono riconducibili ad una ed una sola causa) è l’espansione creditizia causata da un artificiale abbassamento del livello dei tassi di interesse al di sotto del tasso naturale di interesse. Volontà di calmare gli animi e di continuare un dibattito razionale sulla questione, senza inutili scontri tra due tifoserie che non solo non hanno – a mio giudizio – alcuna ragione di essere contrapposte, ma che devono e possono essere tra loro complementari ed alleate.

L’articolo, come dicevo, si compone di due parti: la prima è, a dir la verità, l’esposizione di un modello già presentato nel Quarterly Journal of Austrian Economics; articolo dal quale – lo confesso – ho tratto ispirazione per scrivere questo articolo in due parti. Nella seconda parte, invece, voglio delineare una mia modestissima proposta in merito all’ambito di cui scrivo. Cominciamo.L’articolo in oggetto parte dall’assunto (ampiamente dimostrato da economisti del calibro di Sargent e Wallace (1975), Barro e Gordon (1973) o Svensson (1999)) che quando una banca centrale adotta una regola di politica monetaria credibile (ossia adotta una politica monetaria sistematica, ossia non discrezionale) vi sono tutta una serie di vantaggi per il sistema economico tra cui – molto importante – la formazione di aspettative che sono coerenti con l’operato della banca centrale stessa e quindi un generale efficientamento del sistema economico. Una delle regole o dei regimi di politica monetaria più comuni è il cosiddetto “inflation targeting”, definito da Bernanke e Mishkin (1997) come:

“L’annuncio di un target ufficiale circa il tasso di inflazione su uno o più orizzonti e […] il riconoscimento esplicito che un’inflazione bassa e stabile è l’obiettivo della politica monetaria”.

Una delle principali formalizzazioni di questa regola di inflation targeting è la cosiddetta “regola di Taylor”, definibile dall’equazione:

, dove it è il tasso di interesse nominale target della banca centrale, πt è il tasso di inflazione, r* è il tasso di interesse reale, π* è il tasso di inflazione ottimale (solitamente, il 2% annuo), con yt è il logaritmo del PIL reale e ŷ è il logaritmo del PIL potenziale. Partendo da una definizione di inflazione quale “aumento del livello generale dei prezzi” (e quindi accettando che l’inflazione possa essere misurata dal deflatore del PIL), l’autore dell’articolo summenzionato ci presenta un’equazione molto familiare agli studenti di economia, ossia l’equazione di Fischer, la quale ci dice che un aumento del livello generale dei prezzi è proporzionale all’aumento della quantità di moneta in circolazione. Infatti, da

si ricava che

, ossia che il livello dei prezzi è uguale all’offerta di moneta per la sua velocità di circolazione (ossia per il numero di volte che la stessa moneta viene scambiata) fratto la quantità prodotta. L’autore dell’articolo in oggetto ha l’intuizione di riscrivere l’equazione degli scambi in termini di tassi di crescita, ossia come:

, e supponendo che nel lungo periodo il tasso di crescita del PIL reale sia tendenzialmente uguale al tasso di crescita del PIL potenziale, ossia che:

, l’autore fa derivare la regola di politica monetaria seguente:

, ossia una regola in virtù della quale il tasso di inflazione ottimale debba essere inverso all’aumento dell’output potenziale dell’economia; una regola molto simile a quella che Milton Friedman nel suo libro del 1969 indicava. Correttamente, l’autore conclude che

“Poiché il tasso di crescita dell’economia è pressoché costante nel lungo periodo nel sentiero di crescita equilibrata (Barro e Sala-i-Martin 2004), il target di inflazione dovrebbe essere costante nel tempo anche in una tale economia”.

I vantaggi di questo tipo di politica monetaria sono molteplici. In primo luogo è ancora possibile, all’interno di questo framework, utilizzare la regola di Taylor; per cui in tutte le banche centrali il mandato della stabilità dei prezzi (e se possibile, una deflazione data da una crescita dell’offerta) verrebbe mantenuto. In secondo luogo, l’obiezione in virtù della quale un tasso di inflazione moderato è utile per abbassare i salari reali e “stimolare l’occupazione”. L’articolo risponde (e dimostra) che

“Nel caso di una deflazione da produttività indotta da uno shock positivo nella tecnologia, I salari nominali potrebbero essere mantenuti costanti e il livello dei prezzi in calo porterebbe all’auspicato aumento dei salari reali”.

Come indica l’articolo stesso, in effetti, matematicamente il salario nominale (wN) è dato dal salario reale (wR)per il livello generale dei prezzi (P):

 il che vuol dire che il tasso di crescita del salario reale si può esprimere come:

Come sottolinea l’articolo, i modelli di crescita neoclassica ci dicono che un’economia che si trova sul sentiero di crescita sostenibile hanno un tasso di crescita dei salari reali uguale al tasso di crescita della tecnologia (g). Inoltre, l’equazione della regola di politica monetaria illustrata da questo articolo ci dice anche che il tasso di crescita del livello dei prezzi sotto la politica suggerita di un negative inflation targeting è uguale al tasso di crescita della produzione potenziale. I modelli di crescita neoclassici prevedono che questo tasso di crescita sia dato dalla somma della crescita della popolazione “n” e della crescita della tecnologia g. Collegando questi tassi di crescita all’equazione precedente, otteniamo la seguente formula per il tasso di crescita del salario nominale secondo la politica suggerita, data da:

L’articolo conclude che

“Abbiamo detto che il tasso di crescita del salario nominale sarebbe dato dall’opposto del tasso di crescita della popolazione. Pertanto, la rigidità al ribasso dei salari nominali costituisce una seria obiezione contro la proposta di politica monetaria suggerita se essa fosse utilizzata in paesi con crescita della popolazione positiva. In tali paesi con rigidità al ribasso dei salari nominali, il nostro suggerimento porterebbe a una crescita dei salari reali superiore a quella naturale, che aumenterebbe la disoccupazione involontaria. [Tuttavia] se i salari reali aumentano a causa del progresso tecnologico e la banca centrale punta a un tasso di inflazione positivo, i salari nominali devono aumentare di un tasso di crescita superiore al livello dei prezzi. Questo crea un ambiente che limita la flessibilità al ribasso dei salari nominali. In un contesto di diminuzione stabile e attesa del livello dei prezzi, le rigidità dei salari nominali potrebbero essere almeno in parte eliminate poiché i dipendenti potrebbero persino essere disposti ad accettare una moderata diminuzione dei loro salari nominali implicita nell’equazione 10 e un livello dei prezzi in calo ad un aumento dei loro salari reali”.

Tale politica, sebbene limiti (e di molto) la discrezionalità nell’operato delle banche centrali, non è esente da critiche. In primo luogo è criticabile l’uso del PIL come variabile chiave. Secondo molti austriaci, infatti, nonostante infatti esso ripeta sempre l’aggettivo “lordo”, si tratta in realtà di un aggregato “netto”, dato che secondo gli Austriaci esagera il consumo e sottovaluta il peso delle tappe intermedie. La ragione di questo problema risiede nel fatto che la contabilità nazionale nasce, intorno alla fine della seconda guerra mondiale, come un’escrescenza keynesiana, uno schema teorico nel quale si esagera l’importanza del consumo. Questo sbilanciamento viene giustificato, secondo i creatori della contabilità nazionale, dalla necessità di evitare la “doppia contabilizzazione” dei beni che attraversano la struttura produttiva e giungono alla tappa finale del consumo. In altre parole, considerando tutte le tappe del processo produttivo, si rischierebbe di sommare varie volte il medesimo elemento. Le ragioni per dissentire dalla preoccupazione di doppia contabilizzazione sono tuttavia due:

  1. tale ragionamento risulterebbe accettabile e logico dal punto di vista della contabilità di un imprenditore individuale, ma dal punto di vista della teoria macroeconomia la contabilità nazionale elimina la possibilità di osservare come si espande o si contrae la struttura produttiva.
  2. Stricto sensu, l’argomento della doppia contabilizzazione non è fondato. Il bene intermedio che si contabilizza considerando tutte le tappe coinvolte non è lo stesso che si vende. Dal punto di vista sincronico, il bene che si produce in una tappa intermedia, non è lo stesso che si assembla nella tappa successiva o che si vende al concessionario nella prima tappa del processo di produzione. Non è lo stesso bene che si contabilizza tre volte, sono tre istanze diverse dello stesso modello che sono localizzate simultaneamente in tre posizioni distinte, anche dal punto di vista contabile, nella geografia della struttura di produzione. Si tratta pertanto di beni capitali distinti che non procurano doppia contabilizzazione.

In questo senso, per risolvere il problema, gli austriaci come Mark Skousen propongono di utilizzare un altro indicatore – il Gross Output – quale indicatore economico maggiormente rappresentativo (e quindi da tenere in maggiore considerazione), pari al Valore Aggiunto Lordo (o GAV, dall’inglese “Gross Value Added) più i consumi intermedi. Il grande vantaggio di tutto ciò è che vengono visti i movimenti intermedi della struttura produttiva, il che consente di vedere l’andamento dei beni intermedi coerentemente con la visione “disaggregata” della struttura della produzione austriaca; valore – questo – che non solo rimane una elucubrazione teorica ma che viene calcolato da istituti di statistica ufficiali come il Bureau of Economic Analysis statunitense. Tutto questo implicherebbe una distinzione dei vari beni (l’incognita Y) nell’equazione degli scambi; un’operazione – questa – che non pone problemi di particolare entità dal momento che già Roger Garrison ha “disaggregato” l’equazione degli scambi di Fisher per cogliere le diverse tappe della struttura produttiva.

Un secondo problema è quello di inserire il modello di politica monetaria all’interno di un framework di analisi DSGE, in cui sia possibile misurare gli effetti dell’adozione di una politica simile. Anche questo problema, tuttavia, è di facile risoluzione. Utilizzando un simulatore (indicatomi da un mio contatto, che ringrazio per avermelo dato) che opera all’interno di un framework neokeynesiano (e quindi cercando di rispondere alle obiezioni degli amici di questa scuola che sono in ascolto e che vedono di cattivo occhio un tasso di inflazione negativo) infatti, ho ottenuto alcuni risultati interessanti in merito all’adozione di questa politica supponendo due scenari: uno di economia chiusa con politica fiscale esogena, restrittiva e fissa (ossia senza cambiamenti nelle variabili che la compongono, con una pressione fiscale rispetto al PIL del 20%, una spesa pubblica su PIL del 10%) con basso rapporto debito/PIL (5%), crescita di lungo periodo del 6% ed un tasso di inflazione prima positivo e poi, da un certo punto in avanti, con target al -2%. I risultati sono quelli che seguono.

Nel secondo scenario ho supposto: a) un’economia aperta, b) tassi di cambio fissi, c) un apprezzamento della valuta nazionale, d) crescita di lungo periodo sia a livello mondiale sia a livello nazionale (con quella nazionale minore di quella mondiale), e) un disavanzo nella bilancia commerciale (anche se il risultato non cambia supponendo un avanzo) ed f) una politica fiscale restrittiva, un basso rapporto debito/PIL ed endogena al modello. I risultati sono quelli che seguono.

Vediamo quindi che anche ragionando in un framework che non è affine alle posizioni degli austriaci (o dei liberali in generale) possiamo avere – sotto certe condizioni – una crescita positiva (o stabile) con tassi di inflazione negativi ed una politica fiscale restrittiva.

Il problema con questo modello si ha, tuttavia, quando le condizioni di crescita vengono meno, dal momento che il venir meno della crescita du lungo periodo implicherebbe un maggior attivismo delle stesse durante i cicli economici (via abbassamento dei tassi). Per capire come risolvere questa impasse, abbiate qualche giorno di pazienza: piccolo spoiler, vi consigliamo un ripassino di Irving Fisher, Knut Wicksell e della teoria preferenza temporale secondo la scuola austriaca.

3 commenti

  1. Non sono “attrezzato” per apprezzare l’articolo come meriterebbe. Ma mi ha lasciato perplesso un punto: “quando una banca centrale adotta una regola di politica monetaria credibile (ossia adotta una politica monetaria sistematica, ossia non discrezionale)”… D’accordo che non è possibile un’inversione ad U nel comportamento delle Banche Centrali, ma sono pessimista anche su una semplice inversione del trend: i Banchieri centrali sono gelosi della loro ampia “autonomia” dal potere politico; ed avendo in pugno gli Stati debitori, non vedo all’orizzonte alternative a questo pacutm sceleris. Discutere in materia tra anarchici e minarchici è purtroppo un dibattito tra utopisti e semi-utopisti.

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    • Allora, ad esseri sinceri a livello accademico – infatti – si discute dell’indipendenza delle banche centrali bisogna partire dal presupposto che si dice “indipendenza” ma in realtà di dice che una banca centrale ha dei “diversi gradi di dipendenza”, ossia che una banca centrale è più o meno dipendente dal potere politico. Ad esempio, la FED è notoriamente più dipendente (e quindi meno indipendente) della BCE.

      Sulla discrezionalità o meno della politica monetaria, ci sono studi accademici che coinvolgono il discorso delle aspettative: se una banca centrale adotta una regola di politica monetaria che è costante nel tempo gli operatori economici si creano delle aspettative che vanno poi ad essere il driver delle condizioni economiche che effettivamente si realizzano. Ad esempio, uno dei motivi per cui non c’è inflazione nonostante le dosi da cavallo di QE (oltre al fatto che con tale operazione viene creata base monetaria e non moneta, dal momento che sono riserve delle banche commerciali presso la banca centrale) è esattamente questo: soprattutto in questi
      mesi, l’incertezza ha fatto sì che tutti coloro che hanno avuto i summenzionati guadagni in conto capitale, così come tutti i cittadini che hanno un conto corrente di deposito, hanno deciso di “tesaurizzare” le loro entrate togliendo moneta dal circuito economico reale abbassando la domanda in termini monetari e quindi mettendo delle pressioni al ribasso sui prezzi e le aspettative di inflazione. Tutto questo potrebbe cambiare (ed anzi, negli USA sta già cambiando) con l’arrivo dei vaccini: già i rendimenti dei titoli del Tesoro USA stanno salendo, il che ci dice che le aspettative degli operatori (stimolate anche dalla dose di stimulus che Biden ha intenzione di fare) si adattano alla natura inflazionistica delle politiche monetarie ed agiscono di conseguenza. Post scriptum: i deficit saranno saranno, oltre agli investimenti privati post-pandemia, uno dei principali driver dell’inflazione anche in Europa. Quindi alla fine le banche centrali dovranno andare in restrittiva che loro lo vogliano o no (pena la distruzione totale del sistema monetario e finanziario); tutto sta vedere in che condizioni fiscali gli Stati si troveranno per allora: quelli con bilanci più solidi (leggi Germania e paesi nordici) si troveranno bene, gli Stati irresponsabili (a favore dei quali il QE è stato fatto, tipo il nostro) andranno a chiedere l’elemosina. Per questo servono riforme strutturali e consolidamento fiscale: la politica monetaria non cambia i fattori reali (produttività etc.) e prima di pensare alla politica monetaria servono operazioni dal lato fiscale e strutturale.

      In ogni caso speriamo di aver stimolato la curiosità in merito all’argomento!

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